Li vedi quelli che disgrazia li coglie: hanno un solco nella faccia che non sanno più colmare e gli zigomi alti a pelle tesa del tamburo. Non gli ridono gli angoli degli occhi e non gli vengono i secondi pensieri perché cercano i primi. Ma vanno sereni. Non c'è strada che non abbiano percorso, né meta che gli manchi di doppiare. Rivisitano il luogo del loro sollievo e del piacere che nessuno abbandona, nella vita, per sempre. Vorrei avere lunghe dita per toccargli la testa e farli girare avanti, dov'è ora. Cambia perfino il pigmento delle palpebre se speri e non si chiudono.
Le volte che ho seguito con le dita sazie il profilo di una spalla che conosco, dove l’osso sbalza appena alla fine di un declivio lento.
Le volte che ho sentito quelle dita cercare l’osso del fianco dove amavano posare la mano nella bella stagione.
Non le conto più. Le volte, dico, che ti ho voluto tanto da infettarmi il corpo. Si era riconosciuto, salubre, in quel tuo passo singolare e un po’ inclinato.